Il concetto di intenzionalità
Alcuni concetti chiave della fenomenologia: Epoché, Eidos (essenza) afferramento-intuizione dell’Eidos, Intenzionalità, Noesi e Noema.
Il concetto di intenzionalità, insieme a una teoria generale degli atti-vissuti di coscienza viene presentato nelle Ricerche logiche (1900-1901) opera nella quale Husserl svolge anche una minuziosa critica a tutte le impostazioni che vogliono in qualche modo ridurre la logica alla psicologia.
Husserl insiste sul fatto che le forme logiche e i significati non sono oggetti psicologici legati alla singolarità di chi li pronuncia. Essi hanno una dimensione puramente ideale che rende la loro validità indipendente dal fatto di venire pronunciati pensati scritti in una determinata circostanza.
Le Ricerche seguono di 10 anni la prima opera importante di Husserl, Filosofia dell’aritmetica (1891), nella quale viene analizzata l’origine soggettiva del concetto di numero, con una modalità che, pur inquadrata nella cornice generale di un’analisi ancora di tipo psicologico, anticipa l’impostazione fenomenologica successiva. Quest’origine viene vista nell’atto del collegamento collettivo (che nelle Ricerche sarà definito propriamente un atto categoriale) di oggetti qualsiasi privati delle loro caratteristiche sensibili specifiche e considerati come puri “qualcosa”.
L’intenzionalità è, nell’impostazione fenomenologica, il tratto tipico della coscienza che è sempre coscienza-di-qualcosa, cioè di un oggetto che può essere percepito, ricordato, immaginato, espresso in forma linguistica. Un punto importante da precisare è che l’oggetto a cui si fa riferimento non è l’oggetto reale ma l’oggetto di coscienza, ciò che appare, si manifesta quando si percepisce si ricorda, si immagina si formula un pensiero.
Per comprendere con chiarezza questo punto, fondamentale per l’impostazione fenomenologica consideriamo un atto percettivo. Guardiamo il cellulare posato sul tavolo davanti a noi. “Mettiamo tra parentesi” l’oggetto fisico che conosciamo e che usiamo quotidianamente e cerchiamo di cogliere quello che appare veramente: possiamo dire di vedere effettivamente l’oggetto fisico cellulare? In termini fenomenologici no, perché di esso vediamo solo il lato rivolto nella nostra direzione, il lato/scorcio che appare a noi. Se ci spostiamo o spostiamo la testa, lo scorcio precedente “si adombra”, non sparisce, rimane “consaputo”, collegato alla percezione ma non è presente ed appare un altro scorcio; se ci spostiamo ancora, un altro ecc…. Lo stesso accade ruotando la posizione del cellulare. Ciò che è percepito, intenzionato e che è distinto dall’oggetto reale sono questi scorci dati di volta in volta in pienezza intuitiva-visiva insieme a cui si sovrappone una forma di coscienza/ indiretta che stiamo guardando sempre lo stesso oggetto, che è sempre lo stesso oggetto che si manifesta. Questo vale per qualsiasi oggetto piccolo o grande che sia, qualsiasi sia la sua forma. È quindi caratteristica eidetica, essenziale, del darsi dell’oggetto fisico alla coscienza il fatto di manifestarsi sempre per datità parziali per raggi intenzionali di pienezza e di successivi adombramenti. La cosa da un punto di vista fenomenologico deve essere vista come un’idea regolativa di processi percettivi costantemente integrativi, come “sistema (…) di interminabili processi di un apparire continuativo” in una “..progressiva illimitatezza di intuizioni concordanti”.
La teoria generale descrittiva degli atti di coscienza
Il concetto di intenzionalità serve a distinguere l’oggetto reale dall’oggetto di coscienza e a distinguere i vari atti e oggetti di coscienza l’uno dall’altro. L’oggetto percepito si dà per scorci e adombramenti, intenzioni piene e vuote e, aggiungiamo ora, esibisce delle sintesi che, a differenza di quanto affermato da Kant, non sono effettuate dal soggetto – il quale effettua una forma di sintesi-unificazione temporale tra i vari scorci in cui l’oggetto fisico si dà – ma imposte dai contenuti percettivi stessi: fusione di colori, forme che si delineano autonomamente tramite accostamenti di linee e posizioni particolari. È questo il concetto di sintesi passiva.
Quando noi intenzioniamo qualcosa attraverso atti categoriali (atti di sintesi di paragone, di collegamento di esclusione di enumerazione) siamo noi che organizziamo i dati già costituiti della percezione a nostro piacimento e diciamo, xes, “il libro è a destra della lampada”, oppure “la lampada è alla sinistra del libro”. Le varie possibilità di collocazione e di paragone e i vari ordini dell’enumerazione non sono dati direttamente nella percezione. In queste forme sia l’atto di coscienza (l’atto del collegare, paragonare, enumerare, che l’oggetto di coscienza (per semplificare la proposizione che si è formata, come negli esempi appena fatti) sono diversi rispetto all’atto percettivo (per la precisione sono, come nell’esempio della cattedra e del banco fatto nel primo paragrafo, delle constatazioni che innestano sul livello percettivo, e quindi lo collegano a, un livello categoriale-di pensiero).
Caratteristica essenziale dell’intenzione di significato cioè del rapporto con l’oggetto nella forma linguistica è di essere un “intenzione vuota” di non collegarsi al manifestarsi dell’oggetto nella percezione o nel ricordo o anche in una semplice fantasia. L’intenzione di significato si basa sulla capacità di usare la parola secondo la sua forma grammaticale (sintattica e morfologica) corretta senza bisogno di collegamento ad un’intuizione cioè al livello percettivo. Come vedremo questo collegamento po’ avvenire ma è un passaggio secondario.
Allo stesso modo un oggetto (di coscienza) ricordato o immaginato avrà caratteristiche diverse dall’oggetto (di coscienza) percepito così come l’atto del ricordare avrà caratteristiche diverse dall’atto dal percepire o dell’immaginare.
L’atto del ricordare da un punto di vista fenomenologico può essere definito come un “volgere lo sguardo indietro nel tempo”. Contrassegno essenziale dell’oggetto di coscienza rimemorativo è il contrassegno di passato (non necessariamente secondo una precisa collocazione nel tempo oggettivo) e di realtà: qualcosa che ricordo è qualcosa che è accaduto e che quindi è stato percepito.
Nel ricordo è presente una coscienza secondaria, un’intenzionalità secondaria, dell’impressione originaria percettiva nella quale l’oggetto è stato costituito. Questo non significa che non potrei sbagliarmi, che non potrei ricordare scorrettamente o che ciò che ricordo potrebbe anche non essere avvenuto, ma questo è un aspetto diverso.
Nel caso dell’oggetto di coscienza immaginativo si verifica quella che in Idee I Husserl chiamerà “modificazione di neutralità”. La modificazione di neutralità annulla la certezza della credenza ma non pone un non essere, una negazione. Essa pone un oggetto di coscienza in uno stato, neutrale, che non è ne esistente né non esistente. È questa, come già avevamo accennato nel primo paragrafo, la caratteristica eidetica, essenziale, degli oggetti di fantasia, che sono dati in modo neutrale rispetto alla posizione di esistenza, nella forma del “come se”.
Nel ricordo è presente un’intenzionalità secondaria sull’impressione originaria che ha dato l’oggetto, la possibilità di questa coscienza di impressione originaria manca necessariamente negli atti di fantasia.
Nel concetto di intenzionalità è implicito il darsi, manifestarsi di qualcosa nella coscienza. Husserl afferma che ogni vissuto intenzionale è esso stesso una rappresentazione o ha alla base una rappresentazione, cioè il fatto che qualcosa si oggettualizza per noi, che si dà, si manifesta nella coscienza. E non deve essere associato al presentarsi di immagini.
Husserl definisce l’oggettualità di coscienza, quello definito provvisoriamente “contenuto”, materia d’atto differenziandola dalla qualità d’atto.
La materia rappresenta l’aspetto dell’atto che “fa sì che l’atto rappresenti proprio questo oggetto e proprio in questa maniera cioè in queste forme e articolazioni con particolare riguardo a queste determinatezze o rapporti”. La qualità è l’aspetto soggettivo: una stessa materia d’atto può essere percepita, ricordata, immaginata, essere la base di un atto giudicativo, a sua volta nella forma della certezza, del dubbio, della supposizione. Su questo primo strato possono sovrapporsi altri atti, altre qualità d’atto di desiderio, di volontà, di sentimento, di valutazione estetica.
Secondo lo schema che emerge nelle Ricerche Logiche, gli atti intenzionali di coscienza possono essere distinti in atti oggettivanti e atti non-oggettivanti.
- Gli atti non-oggettivanti sono gli atti che “rendono presente un oggetto di coscienza”, “fanno apparire” un oggetto di coscienza. Essi sono il percepire il ricordare e l’immaginare il giudicare predicativo.
- Gli atti non-oggettivanti, in contrapposizione, si definiscono come atti non indipendenti che hanno un fondamento nei primi. Essi sono il desiderare, il concupire, il gioire, il rallegrarsi.
Affinché qualcosa possa essere oggetto di desiderio, gioia, concupiscenza, deve essere presente nella coscienza in un atto percettivo, rimemorativo o immaginativo, giudicativo.
Gli atti oggettivanti possono essere suddivisi in posizionali, tetici, e non posizionali, non tetici.
- Gli atti posizionali pongono l’oggetto nella modalità di credenza d’essere, lo pongono come esistente – è il caso della percezione e del ricordo.
- Gli atti non posizionali “neutralizzano” la posizione d’essere, come è il caso dell’atto immaginativo.
Anche gli atti non oggettivanti possono essere tetici o non tetici. Per esempio, l’atto del gioire, a seconda del suo riferirsi ad oggetti di atti oggettivanti o non oggettivanti, potrà avere come modalità la credenza d’essere o una sua neutralizzazione.
Riferimenti: appunti universitari
Manuale Porro – Esposito 3: filosofia contemporanea
Giuseppe Cambiano, Massimo Mori – Storia della filosofia contemporanea
2 risposte su “Filosofia Contemporanea – II”
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