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L’appuntamento ideale di Mattia Russo – Estratti

estratti-lascrivanialetteraria-lappuntamentoideale-blogUna buona giornata Lettrici e Lettori. Oggi vi propongo in lettura cinque estratti dedicati al romanzo L’appuntamento ideale di Mattia Russo, in campagna Crowdfunding su Bookabook! 

Oltre ai brani qui presenti, sul mio profilo instagram @la.scrivania.letteraria, troverete nel corso di questi giorni, a partire da oggi, degli estratti brevi dedicati a L’appuntamento ideale e non scordatevi di andare sul sito di Bookabook per ottenere la vostra copia e partecipare così alla campagna crowdfunding!

 

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Vorrei tante cose.

Vorrei scoprire di essere il migliore.

Vorrei che ogni ambito che mi appassiona aprisse le braccia e ringraziasse di aver trovato un talento del mio calibro.

Vorrei saper boxare come i più grandi. Vorrei avere muscoli pronti e addestrati ad un unico scopo. Vorrei poter permettermi di avere la sicurezza della macchina da combattimento nello sguardo. Vorrei poter proteggere le persone a me care non solo con le parole.

Vorrei essere più intelligente. Riuscire a scoprire la prossima rivoluzione del nostro secolo ed entrare nella storia. Vorrei fare così tanti soldi con il mio cervello da non dovermi più preoccupare di usarlo.

Vorrei essere ricco.

Vorrei essere più bello. Colpire al primo sguardo, lasciare quel velo misterioso che rende tutto più affascinante. Vorrei non aver bisogno di aprir bocca per piacere. Vorrei poter scegliere di riprendermi da una rottura semplicemente puntando il dito nella folla femminile di un locale.

Vorrei essere più simpatico. Essere divertente per gli amici e irresistibile per le ragazze. Vorrei avere la facoltà di piacere a tutti, lasciar loro un ricordo unico di me. Vorrei che dopo avermi conosciuto mi ricerchino perché attratti dai miei modi.

Vorrei essere in grado di capire al volo le situazioni. Vorrei sapermi adattare, non dovermi mai alterare e riuscire a vedere sempre il fine ultimo.

Vorrei possedere quell’acume che travalica il semplice cervello. Avere la vista del detective. Vorrei saper osservare, analizzare, capire e infine spiegare.

Vorrei avere classe. Quella che non si fermi semplicemente al saper vestire, ma che sia insita nel tuo essere, nel tuo portamento, nella tua gestualità e dialettica.

Vorrei sapere dar consigli che vengano ascoltati. Vorrei essere la spalla sulla quale chiunque si senta sicuro ad adagiarsi. Vorrei essere sempre presente per ogni persona a me cara. Vorrei poterli difendere anche dal male interiore.

Vorrei essere in grado di riuscire a far avverare i miei sogni. Vorrei essere in grado di alzarmi e cambiare davvero la mia vita con gesti concreti. Vorrei smetterla di crogiolarmi dentro immagini e possibilità che la mia pigrizia ucciderà.

Vorrei essere un bravo scrittore. Vincere numerosi premi ed essere riconosciuto a livello mondiale. Vorrei riuscire a vivere della mia scrittura. Vorrei creare personaggi così vividi che rimangano nell’immaginario di più persone possibili. Vorrei che dalla loro eventuale tragica fine mi vengano mosse accuse di crudeltà.

Vorrei capire ed essere capito. Vorrei usare meno parole possibili, ma riuscire a dire di più.

Vorrei essere di più.

Vorrei essere meno condizionali e più imperativi.

Vorrei riuscire a vivere di meno vorrei.

Vorrei desiderare meno vorrei senza che l’animo mi venga scosso in continuazione.

Vorrei, ma non potrei vivere così.

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I dettagli ci fregarono. Le piccole cose incrinarono il rapporto tra i miei. Senza catastrofi questi dettagli si infilarono nella nostra quotidianità, piantando i loro semi. Nutriti da incomprensioni, silenzi, ritardi, discussioni, orgoglio, paura, frustrazione e stanchezza, questi semi germogliarono. E più essi crescevano, più il rapporto tra i miei cedeva, pezzo dopo pezzo, pietra dopo pietra. Quando infine crollò del tutto decisero di costruire il muro. Come una scomoda infezione quel muro tagliò di netto la loro camera da letto. Era abbastanza grande per essere divisa, senza che nessuno dei due dovesse scendere a patti con la scomodità del divano. Il divorzio era ad un passo, leggermente sussurrato.

Mi ricordo bene il giorno in cui gli operai finirono il muro. La parete di mamma era color beige, mentre quella di papà era un bianco spartano. Le due stanze profumavano di vernice fresca. Fui il primo a salire le scale, il primo a vederle e fui il primo a piangere. Realizzai la fine di un’adolescenza felice, tranquilla, normale. Realizzai la fine della famiglia per come la conoscevo. Realizzai la fine di quella stanza, scheletro in un cimitero senza polvere. Avevo perso una discussione che non sapevo neanche di aver intrapreso e non c’era nessuno su cui potermi rifare. Da quel giorno quel muro iniziò a puzzare. Un odore così nauseante da non farmi più avvicinare.

Pian piano lasciai perdere ogni forma di battaglia in casa. I miei genitori erano stati i primi ad arrendersi e io ero troppo inesperto.

I loro orari ormai non combaciavano più. La mattina facevano a gara per uscire prima e la sera per tornare tardi. Raramente si fermavano nella stessa stanza, e quando parlavano era solo per discutere. La piccola luce familiare era diventata lavoro per loro. E io ero lì nel mezzo, coccolato da due estranei che volevano ancora il titolo di genitori, incapaci di esserlo.

Scoprii di non avere la tempra che andavo millantando. Non ero un pugile, ma un codardo.

Iniziai ad evadere da una condizione che non era la mia, una situazione che non riconoscevo come casa. Trovai altri luoghi dove sentirmi sicuro, dove ridere in compagnia. Provai a investire le mie energie in un’altra famiglia, che fossi in grado di scegliere, di cambiare. Abbandonai la casa per i parchetti, le strade e i bar. Mi sentivo me stesso soltanto fuori, lontano da quel muro freddo che testimoniava la mia sconfitta. Riscoprii il sorriso e le risate. Il calore di un gruppo di amici su una panchina in inverno spazzò via la tristezza di ricordi felici. Sopravvivevo in casa, vivevo fuori.

Passai la mia adolescenza come un tossico di tempo a desiderarne sempre di più, lontano da quelle mura. Trascorsi la mia adolescenza scappando da quella situazione, finché non venne il giorno del mio primo addio.

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«Non sei stanco di fingere?» disse lei.

Alzai il sopracciglio per la sorpresa e un sorriso di circostanza fece il suo ingresso sul mio viso.

«Fingere cosa, Ana?»

Si chiamava Ana, era sud americana, dalla pelle bruciata dal sole quanto basta per risaltarne le giuste ombre, e mi fissava con quegli occhi neri, che potevano essere sia condanna sia assunzione. Il mio istinto mi suggeriva la prima. Era il nostro primo appuntamento e fino alla domanda iniziale pensai stesse andando tutto bene. Un locale post cena, buona musica in sottofondo, cocktail all’altezza dell’occasione e due persone che parlavano tranquillamente.

Non avevo previsto Ana però.

Aveva dei lineamenti dolci, un sorriso naturale e un naso che i più definirebbero “un po’ troppo grosso”. Nell’insieme era davvero carina e oltretutto era anche intelligente. Mai banale, sapeva ridere alle battute e conduceva dei signori discorsi. Era evidente chi tra i due avesse fatto bingo quella sera.

«Tutto questo. Il posto, gli abiti eleganti, i cocktail, le chiacchere, io, te. Tutto questo teatro che abbiamo messo su soltanto per poi ritrovarci a letto nudi, a sudare per il piacere. Entrambi sappiamo che stiamo recitando questa sera. Da quando ti ho detto di si è iniziato tutto. Hai iniziato a fantasticare sulle diverse scene che avresti, o dovresti, rappresentare per far colpo. E io che penso alle stesse cose. Siamo su un palco, illuminati da una luce così forte che non ci fa vedere che non c’è pubblico. E recitiamo per colpire ognuno l’altro. Se io ti dicessi, qui e ora, che non importa cosa farai, tanto a fine serata verrò a casa con te, scommetto che ti sentiresti più leggero. E io lo stesso. Perché non saremmo più obbligati a recitare una parte, la miglior versione di noi, ma semplicemente ad essere noi. Sarebbe come uscire tra amici, ridere, parlare e, a fine serata, riscuotere un bonus. Ci potremmo conoscere davvero e non aspettare mesi, finché non ci sentiremmo pronti a rivelare i segreti che celiamo ai più. Perché devo aspettare mesi per conoscere il vero te? Soltanto perché vuoi infilarti tra le mie gambe? Guarda, Arturo, raccontami chi sei veramente, raccontami i tuoi sbagli, raccontami quello che stasera non avresti detto e probabilmente il gioco è già vinto. Davanti ad una persona vera allora sarò libera di essere vera anch’io, senza sembrare strana o pazza. Dimmi che non ti accontenti delle apparenze. Dimmi che non sei uno di quelli che spreca tempo a dar loro peso. Dimmi: non sei stanco di apparire la miglior versione di te?»

Il whisky aveva colpito duro, ma anche l’uscita di Ana non scherzò. Secca, diretta, quasi come se il Martini Dry le avesse dato qualche consiglio. E non lo aveva neanche finito.

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Sono un sognatore.

Avevo otto anni quando l’ho realizzato. Bagnato, in canottiera e pantaloncini abbinati, sotto un temporale estivo di una forza inaudita. Chiudendo gli occhi riesco ancora a sentire il rumore della pioggia, il suo profumo, i suoi colori. E io, nel grosso cortile di casa, con Black che abbaia come i cani dell’Inferno e nonna Rosa che urla come un’ossessa, sono lì a ridere, testa al cielo, mentre ruoto su me stesso nel tentativo di fermarla. Una piccola peste rossa che disobbedisce. Ho imparato a farlo in giovane età.

Da piccolo condivo le mie giornate con le classiche bugie da pischello. Mi tiravano fuori da guai, o almeno così pensavo, e mi facevano fare bella figura. Quante ne ho toppate. Un raccontaballe non è tanto diverso da un sognatore. Entrambi non si accontentano della realtà, ma immaginano un mondo dietro la siepe talmente vasto da prendere lezioni da Leopardi.

Lo ammetto: sono ancora un raccontaballe.

Una volta detto risulta più simpatico. Se prima condannavo questo mio lato, oggi invece credo di averne capito il perché. Le bugie colorano il grigio della realtà. Non è una semplice giornata se viene arricchita di fantastici dettagli, sensazioni, impressioni. E anche se non erano vere chi può dire che lo sguardo della signora accanto a me al semaforo non fosse di desiderio.

Una bugia, se innocente, non fa del male a nessuno e rende tutto più interessante. Questa è la scusa che uso quando vengo beccato. Un potrebbe essere al posto di quello che è. Un sogno, un’illusione, una presa in giro insomma.

Un sognatore porta con sé anche il fardello degl’altri. Perché quando ti guardi attorno non c’è che la realtà, e i realisti. Nonna Rosa me ne diede tante per la mia bravata. Lei è una realista, di quelle che seguono la lista studio, lavoro, ragazza, casa, matrimonio, figli, pensione e morte. Ripetere.

I realisti guardano a quello che hanno e non a quello che potrebbero avere, e se puntano al secondo non hanno fantasia. Sono grigi impiegati della vita.

E li capisco. Una bugia, come un sogno, non è all’altezza della realtà. Suvvia, viviamo nel presente e nel presente non si vedono i sogni. Per questo una bugia risulta una felicità effimera e un sogno un traguardo irraggiungibile. Eppure mi chiedo perché.

Perché checché se ne dica in giro un sognatore ha notevoli vantaggi rispetto agli altri. Riesce a vedere i colori nel grigio della giornata, nella routine e sente il profumo della positività. È un arcobaleno in mezzo a tante nuvole. Lo considero un’ottimista degli sbagli. E se un raccontaballe può diventare un sognatore, perché non possono farlo gli altri, quelli più onesti?

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Tu sei veleno.

Distillato di bellezza liquida che tenta e uccide.

Tu sei veleno.

Iniettato pian piano nel mio corpo, forte baluardo da abbattere, per poi vederne le rovine sorridendo dall’alto.

Tu sei veleno.

Stupendo, limpido, del colore della vita che poi regala morte.

Tu sei veleno.

E io ti ho bevuto. In piccoli sorsi, bagnando le labbra e leccandole, ancora sporche del pericolo. E non me ne sono reso conto, o si? Lo sapevo e ho continuato a bere. Che stupido.

Tu sei veleno.

Hai dichiarato fin da subito le tue intenzioni. Ti ho ascoltato? Forse all’inizio ma poi la tentazione è andata crescendo. La tua bellezza mi ha vinto, mi ha fatto avvicinare al tavolo e ti ho afferrato.

Com’eri morbida, liscia e profumata. Le mie mani scivolavano sulla tua pelle con innaturale dolcezza. Quella stessa dolcezza che non mi appartiene ma che con te mi obbligavo ad usarla. Non volevo romperti, volevo berti.

Tu sei veleno.

Le regole nella mia testa era ben chiare eppure non le ho seguite. C’era scritto di non bere e io ho disobbedito. Perché? Perché? Perché?

Tu sei veleno.

Ti ho permesso di entrarmi dentro. Ti ho lasciato via libera per ogni vena del mio corpo e adesso mi ritrovo a terra, con un rivolo di bava che tocca il pavimento a soffocare nella mia colpa. Ti sento dentro, in ogni attimo della mia giornata e mi fa male. Mi fa male pensare che forse non potrò liberarmene mai più, mi fa male pensare che potrei morire sotto questo peso e non vedo uscita. Il mio sguardo viaggia in ogni possibile direzione a cercare la cura: gli amici, lo studio, il lavoro, gli hobby eppure sei sempre dentro di me.

Tu sei veleno.

Che stupido sono stato. Ho commesso il mio primo errore in amore. D’improvviso fermo davanti a quel tavolo, un’ampolla luccicante domina il circondario e io non ho minimamente pensato a leggerne l’etichetta. Mi sono avvicinato, l’ho afferrata e ho bevuto. Io stesso ti ho permesso di avvelenarmi il fisico e l’anima.

Tu sei veleno.

Cosa pensavo di aspettarmi? L’hai dichiarato al mondo come eri fatta. Sei stata chiara sulla tua pericolosità eppure io ti ho ignorato. Fa così male perché potevo non berti, potevo avere quella flebile speranza che fossi immune, eppure così non è stato. Mi ritrovo ad essere una tacchetta tra i morti per mano tua.

Tu sei veleno.

E ho paura. Paura di non sopravvivere, paura di non riuscire ad alzarmi, paura di essere cambiato. Una paura oscura che mi attanaglia all’improvviso nelle giornate di sole più luminose. È questo il tuo effetto. È questo che mi hai fatto.

Tu sei veleno.

Un’azione stupida vale tale dolore?

Tu sei veleno.

Trama del romanzo L’appuntamento ideale

Un ragazzo di ventitré anni apparecchia il suo appuntamento con la morte. La vasca da bagno è pronta, le sue ultime volontà sono sul tavolo e le vene sono aperte, lasciando scorrere il rosso. Si addormenta rimpiangendo la sua vita piena di delusioni ed essendo convinto di non mancare a nessuno. Si risveglia in una bianca stanza d’ospedale dove, ancora confuso, fa la conoscenza di un enigmatico interlocutore che lo invita a raccontarsi. Inizia così il viaggio attraverso la sua giovane vita, passando per tutti i momenti che l’hanno caratterizzata e che l’hanno portato al gesto estremo. L’appuntamento ideale è un romanzo introspettivo dove a flashback di vita vissuta si intervallano considerazioni sociali, accompagnati dall’odore di una sigaretta tra amici. Non rivela verità universali, ma racconta quei piccoli dettagli che molto spesso diamo per scontato e che in realtà rappresentano le basi su cui crescere.

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