La Scrivania Letteraria

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La penna – Quinta parte

La penna

Quinta parte

«Non nella maniera in cui si intende morta una persona».

Il silenzio proruppe dal microfono. Uno smacco come il giorno in cui aveva saputo che nonna Maria aveva deciso di rimanere a vivere da sola, a Piedironcello. Sfacciata di una vecchietta.

«La differenza che vedi tu, io non ce la trovo». La risata di Maria penetrò il timpano. «Come va?»

«Bene, al solito».

«Quando vieni a trovarmi?»

«Sono impegnato con le ricerche».

«Ho messo il wi-fi da un bel po’, te l’avevo già detto e ho prenotato un taxi per te. Domani mattina alle nove».

Nonna Maria chiuse la chiamata.

Lorenzo sbuffò e alzò le spalle. Prima o poi sarebbe arrivato il fatidico incontro e la nonna aveva già predisposto tutto. Non avrebbe potuto esimersi dal compiere l’ennesimo dovere.

Appoggiò il cellulare, tolse il freno alla sedia a rotelle e spinse. Il parquet scricchiolò nei due soliti punti e la porta della camera cigolò. Aveva perso il lubrificante per le cerniere e ogni volta pensava che sarebbe stato comodo comprarne un tubetto nuovo. Ma che importanza aveva, in fin dei conti? Nel 1400 non c’erano certi generi di comodità. La mano fredda contro il metallo gli fece pensare che anche il suo mezzo di locomozione aveva un ché di comodità. Si era contraddetto, per l’ennesima volta.

E aveva sbagliato.

Ancora.

Il gelo trafisse le gambe e lo ridestò dalla travagliata presa di coscienza degli sbagli, tsunami di pensieri insensati.

Arrivò al letto, fece forza sulle braccia e si issò sulla coperta. Tirò le gambe con sé. Rimase a fissarle. Il cuore balzò ferino, cercando i battiti che le avevano mosse nelle corse sulle isolane spiagge nere, a inseguire Marilia. Immobili.

Chiuse gli occhi e tornò nella pagoda azzurra.

La porta sbatté. Il fruscio delle borse biodegradabili sul bancone della cucina e il trillo del mazzo di chiavi lanciate a casaccio sulla consolle di marmo.

«Sono tornata!»

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La penna – Terza parte

La penna

Terza parte

Le pillole fecero effetto dopo una mezz’ora e Lorenzo, ammansito dagli antinfiammatori, decise di osservare più da vicino i rododendri da cui prima era rifuggito. Erano divenuti la sua passione da piccolo, quando abitava in una lunga e stretta valle in cui l’unica casa decorata dai fiori era quella di nonna Maria. I balconi del caseggiato arroccato sul versante orientale della montagna, a bassa quota, incastonata in una misteriosa faggeta, erano ammantati di gerani rossi e il giardinetto stracolmo di rododendri bianchi da cui sorgeva l’unico esemplare dai boccioli viola. I raggi solari erano amici delle piante e nonna Maria aveva un formidabile pollice verde, così come nonno Domenico Adriano. Entrambi avevano una passione comune: fare l’orto. Avevano eretto dei muretti a secco in un preciso punto del prato incolto vicino alla nuova casa e pian piano avevano riempito il terra pieno di un terriccio nero e leggero al tatto, dando vita a ciò che sarebbe diventato un meraviglioso orto. Appena dopo essere convolati a nozze avevano deciso di cambiare vita: si erano trasferiti dalla città di Bellosa nella valle di Piedironcello. Dopo due anni di ristrutturazioni la dimora aveva assunto un aspetto tanto inquietante, per la torretta dirompente tra le chiome dorate dei faggi, quanto favoloso. Lorenzo era solito appollaiarsi sulla sua cima e giocare per ore con le bambole, intento a portare in scena fiabe e storie raccontate dai nonni prima di andare a dormire. Maria era una sarta rinomata e si occupava di creare le graziose e realistiche bambole di Lorenzo. Ogni nuovo racconto era accompagnato da almeno cinque o sei personaggi. Alla fine della prima estate trascorsa a Piedironcello il bambino aveva collezionato almeno una trentina di bambole. Purtroppo nemmeno una di loro scendeva con lui dalla valle quando giungeva il termine delle vacanze e i genitori, Francesco e Lucia, lo riportavano alla vita cittadina costellata dai soliti impegni: scuola, sport e amici.

Restava solo un vago ricordo dei nonni, impresso nei rododendri che lo circondavano. Sfiorò con delicatezza le foglie e allungandosi annusò i fiori. Non aveva notizie della nonna da qualche mese. Nonno Dome era mancato due anni prima e nonostante la villa in cui risiedeva aveva numerose stanze vuote e un’ala pressoché dismessa, nonna Maria si era rifiutata in modo categorico di trasferirsi. Lorenzo ricordava le urla e i pianti di Lucia che invocava il Signore per far tornare in sé la suocera. Lorenzo non credeva alla Provvidenza né al perdono, nemmeno alla rabbia, ormai anch’essa lo aveva abbandonato. Percepiva in sé una muta disperazione che lo osservava quando andava di notte in giro per la villa deserta, lo spiava dal giardino nelle notti senza luna e gli percorreva le ossa, cercando un modo per instillarsi nella sua mente. Da tre anni resisteva alla follia e guardando il viola morbido ed effimero dei fiori, giunse alla consapevolezza che un giorno o l’altro la pazzia lo avrebbe colto. Solo il tempo avrebbe deciso come mutare la sua storia.

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La penna – Seconda parte

La penna

Seconda parte

I rododendri osservavano Lorenzo ammantato dalle ombre pomeridiane delle tende di lino bianco, intento a leggere un saggio sulla Roma del ‘600. Il tocco delle mani del ragazzo era pregiato per i fiori intrisi di profumo, divenuti pista da ballo di allegre api e gongolanti bombi, disturbati raramente da fatali vespe. Il colore dei petali però, pareva aver perso tono con l’assenza delle cure del padrone di casa, una gioiosa dimora seppur ammantata di un tetro silenzio. Un brivido percorse le gambe di Lorenzo e lui sussultò innervosendosi. Posò la penna e il libro sul tavolo alla destra, poi si affaccendò nella cucina adiacente al salone. Superò i tavolini da caffè e appena le sue mani poterono artigliare il blister di antidolorifici, ingollò un paio di pillole bevendo a canna dalla bottiglia d’acqua. Riposò gli oggetti sull’isola in marmo e rimase a osservare la lancetta dei secondi dell’orologio da muro. Sospirò. A detta dei medici, e secondo l’ultima elettromiografia, le sue gambe avrebbero potuto riacquisire una minima sensibilità, ma non la capacità di movimento. Lorenzo era stufo del parere di chiunque, che fossero esperti, parenti o amici, i quali ancora provavano piacere nella sua compagnia e andavano a fargli visita una volta a settimana per le partite di D&D. Avrebbe potuto scrivere un libro con le parole d’affetto e di incoraggiamento rivoltegli in più di tre anni. Che spreco sarebbe stato. Lui preferiva di gran lunga la storia al dialogo con le persone, soprattutto provava vere sensazioni per lei, imparagonabili rispetto alle vibrazioni provenienti dalle gambe, divenute niente di più che un fastidioso impiccio. La storia era passata, alcune parti dimenticate e altre rivivificate, discutibile nella sua immutabilità, tangibile nei libri, nei documenti, nei manufatti, non di certo estremizzata da emozioni o sentimentalismi che non donavano alcun tipo di energia vivificatrice ai suoi arti molli e striminziti. Lorenzo tornò sul patio e lo sguardo si accinse alle piante, come a volerle abbracciare, poi le rigettò e il gesto si perse nella brezza ballerina. Il giardino gli ricordava Isabella e la notte in cui avevano fatto l’amore, nascosti tra foglie e fiori nonostante il caldo appena accennato del periodo primaverile. Se ben ricordava si era sposata con Guglielmo dopo qualche mese dal loro ultimo, e unico, incontro, poco prima di ciò che era accaduto.

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Pilea Love

Guarda, guarda un po’, c’è proprio vicino a me un bel bicchiere di acqua fresca. Che disdetta che io non abbia né braccia, e nemmeno le mani, per portarlo alla bocca…ops non ho nemmeno la bocca accidenti. Ho solo dei lunghi fusti e delle belle foglie verdi circolari. Eppure niente, non ho le braccia e le mie gambe sono le radici. Ho pensato ogni tanto di chiedere a qualche strega o stregone – se esistessero come dico io! – di farmi un bell’incantesimo e trasformarmi in una persona. Chissà quante cose potrei fare! Pigramente di adagerei su un divano e rimarrei a contemplare il soffitto nelle notti d’inverno, oppure d’estate correrei fino alla sfinimento su prati verdeggianti e rigogliosi, salutando orgogliosa l’erba, prima mia sorella. Passerei il tempo ad osservare i tramonti, le albe e le notti stellate. Non avrei paura di esprimermi, di vivere a pieno ogni momento della mia esistenza.

E invece no. Mi tocca rimanere in un vaso, ad osservare la vita che posso cogliere dalla mia posizione, ma non tutto è perduto. Sono nata in questa forma per gioire delle mie salde radici, per crescere rigogliosa in un pugno di terra fertile, per ciarlare allegramente con le altre piante, mie vicine, anzi, coinquiline ed essere partecipi con il mondo nel nostro piccolo antro verde e rigoglioso. Quando sono nata, un germoglio tenero in mezzo ad altri mille, avevo paura che nessuno mi avrebbe accettata e ho cercato l’approvazione altrui, senza trovarla, poi, un bel giorno, in una notte afosa, la mia terza foglia si è aperta e in una manciata di istanti si è librata nelle sue rotondità. Ho visto, ho sentito come cresceva e io con lei. Pensate un po’…una sola foglia mi ha cambiato la vita e sapete perché? Perché è parte di me e la amo, le do valore ed è me stessa in un’altra forma, in un’altra luce, splendente e rigogliosa.

Immagine di una Pilea, pianta a cui mi sono ispirata per scrivere il breve racconto.
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Un inizio in un giorno di festa

La sveglia suona presto in questo giorno di festa, mi alzo con il sorgere del sole e dopo pochi attimi, dopo i soliti riti del mattino, sono pronta per iniziare. Guardo che gli impasti siano soffici e ben lievitati; preriscaldo il forno che mi accoglie con la sua ventola. Preparo una trentina di palline e taglio la superficie con una Xcome se fossero tutte isole del tesoro, poi le dispongo in ordine su tre leccarde e le inforno. Una mezz’oretta e sarà pronto. Pulisco le mani sul grembiule azzurro come il bel cielo che mi ha accompagnata, apro il frigo, prendo il bricco del latte e ne verso un po’ in una tazza. Non credevo che avrei iniziato a usare il microonde, ma in assenza di una lancia per scaldare il latte, a cui ero abituata nel precedente appartamento, più lussuoso di questo e con più suppellettili, un microonde va più che bene. In realtà, lo uso solo per scaldare il latte al mattino. Apro l’anta in alto a sinistra della credenza e prendo il piatto su cui sono riposti i biscotti che ho preparato ieri per la colazione: cannella e zenzero con gocce di cioccolato fondente. I miei preferiti.

Mi siedo sul tavolo, le gambe penzoloni, ad osservare gli impasti che crescono sotto la luce avvolgente del forno. Ho impiegato qualche tempo ad imparare ad usarlo. L’appartamento era ammobiliato e ho cambiato solo il materasso; un matrimoniale con due materassi lo trovo insopportabile…mi ritrovavo sempre in mezzo e impigliata nelle coperte che si avvinghiavano alle gambe. Termino la mia colazione e ripenso agli anni precedenti; sono in una terra che non conosco ancora bene. Mi sono trasferita giusto un mese fa, ma il giorno di festa lo celebro anche se a pranzo non avrò i parenti, ma ci sarà l’anziana ottantenne Dora dell’appartamento dall’altra parte del cortile, il vicino di appartamento Pasternac sui trent’anni e Guglielmo, il padrone di casa nonché residente al pian terreno. Ho subito notato un fatto di questo caseggiato di campagna appena fuori dal paese: siamo tutte persone sole. E non voglio che i miei vicini, seppur dei totali sconosciuti, seppur soli, rimangano tra le loro quattro mura ad osservare il bel tempo in solitudine, accompagnati solo dal brusio fastidioso delle televisione. Non mi piace pensare alla distanza, non in questo periodo di cambiamento. Mi fa soffrire. E per questo giorno voglio abbattere ogni sorta di distanza, che sia un mattone, l’essere sconosciuti ad altri, la timidezza e la diffidenza.

Manca poco meno di un quarto d’ora alla cottura dei panini. Ripongo i biscotti in ordine, metto la tazza nel lavandino e inizio a prendere tre o quattro ciotole, il pinipimer, la pesa, il dosatore in cui verserò i bianchi d’uovo che monterò a neve e tutto l’occorrente per preparare una torta che è da molto che non cucino: latte, rum, lievito, farina, maizena, uova, panna, zucchero, miele, canditi di cedro e le immancabili gocce di cioccolato bianco. Prima di iniziare apro la finestra e sento il profumo del sugo di carne che arriva dal pian terreno, dalla cucina di Guglielmo; annuso un po’ meglio ed ecco il lauro del coniglio al civet dalla casa di Dora. Chissà cosa porterà Pasternac? Lui è un tipo tutto silenzio e disagio sociale; fa il ricercatore nell’università situata a una trentina di chilometri da qui. Ha detto che preparerà qualche piatto tipico della sua terra, il Portogallo.

Termino l’impasto per la torta ed ecco il timer che suona. Sforno i panini, verso in uno stampo l’impasto e lo metto in forno. Per lei dovrò aspettare un’oretta e avrò tutto il tempo di preparare gli antipasti. Finita la cottura taglierò il pan di spagna e ne farò tre cerchi, aspetterò che si freddino, intanto preparerò la crema e poi farcirò il tutto.

Sorrido a Uiny, il mio gattone nero dai baffi e il muso arancione. «Staremo qui un bel po’ mio caro batuffolone di pelo…staremo qui per un bel po’…e sarà meglio farci nuovi amici». Sento una voce che mi distrae e mi affacciò alla finestra. Dora mi sta chiamando «Elenor vieni da me per il caffè!». Le sorrido. «Va bene! Arrivo!». Uiny mi guarda interrogativo “ma come, mi lasci solo?”. Lo accarezzo, metto le scarpe ed esco, lasciando la porta aperta. Il casolare è il primo luogo in vita mia che sento sicuro e…pacifico. Attraverso il cortile e Dora mi attende sulla porta. La sua permanente è perfetta, è andata dalla parrucchiera ieri. Regge un vassoio che appoggia sul tavolino appena fuori dalla porta. «Godiamoci insieme questo bel sole». Faccio un segno affermativo con il capo e sorseggio il caffè.

“Sarà un bel pranzo” penso mentre osservo il cielo e guardo con la coda dell’occhio il sorriso quieto dell’anziana signora. Non ho mai visto una leggerezza tanto incantevole nell’espressione del volto di una persona.

 

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Nonostante tutto

Nonostante tutto, le giornate passano.

Solo tu puoi decidere,

come,

dove,

quando,

perché,

far passare ciò che avviene in esse.

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